di Sasha Huber
Un’amazzone in galleria
di
Stella Bottai
di
Stella Bottai
Sasha Huber è un’amazzone nel
panorama dell’arte contemporanea. Questa è stata l’impressione che ebbi la prima
volta che la incontrai a Helsinki, alcuni anni fa, presentatami da un’altra
grande artista nordica, Marita Liulia. E come chiamare se non ‘amazzone’ l’artista
che sale su un elicottero per piantare su una cima alpina il ritratto dello schiavo Renty, per ricordare gli atteggiamenti razzisti dello scienziato
svizzero Louis Agassiz (1807-1873) a cui la vetta è dedicata (Rentyhorn, 2008)? Due anni dopo Sasha
Huber si reca a cavallo a Praça Agassiz, nei sobborghi di Rio, e racconta con
un megafono agli abitanti chi era colui che ha dato il nome alla piazza, un eminente
studioso, sì, ma anche tra i primi teorici dell’apartheid (Louis who? 2010). Solo due esempi delle numerose performances che
l’artista compie per mettere in atto una revisione storica sulla figura di
Agassiz e su alcune personalità tramandateci dalla storia, il cui operato ha
finito per rivelarsi in atteggiamenti discriminatori, talvolta finiti in
tragedia. E per pareggiare i conti che le vittime di soprusi, razzismo, dittature,
genocidi hanno con i loro carnefici, la Huber imbraccia dal 2004 una sparapunti
come fosse un fucile e colpo dopo colpo – ricordate Niki de Saint-Phalle che
sparava il colore sulle tele? – tratteggia con i punti metallici i volti di
personalità da lei rimesse in discussione e delle loro vittime (Shooting back, 2004 -).
I love JaNY è il progetto del 2010 che
affronta in modo più intimo il tema caro all’artista, quello delle radici
culturali e dello sradicamento. Le foto e il video in mostra ricostruiscono il ritratto
di Jany Tomba, zia dell’artista, che negli anni Sessanta fuggì la dittatura di
Haiti per stabilirsi a New York. Grazie alla sua radiosa bellezza per Jany si
aprirono le porte della moda. I tratti esotici, il colore della pelle, i
capelli ricci ne fecero un’icona di stile e non solo: la capigliatura crespa
che Jany rifiuta di allisciare – come era convenzione all’epoca – sarà una
scelta significativa, non solo per le donne di colore. Una storia a lieto fine,
raccontata lievemente, ma in cui si percepisce il desiderio di Sasha di
riallacciare un filo con la sua discendenza haitiana e raccontare la storia di
quest’isola: la povertà, la dittatura, il recente terremoto (Haïti Chérie, 2010-11). I love JaNY tende idealmente la mano al
progetto presentato a
LaStellina ArteContemporanea nell’ottobre del 2014, Objects from the Borderlands: Anti-Archive from the U.S. Mexico Border
Project di Susan Harbage Page, a cura di Manuela De Leonardis. In galleria
erano proiettate foto di oggetti che l’artista ha rinvenuto lungo la frontiera tra
gli Stati Uniti e il Messico, appartenuti a migranti che tentarono di passare
il confine e di cui non conosciamo l’identità, gli esiti del loro viaggio. Se
Susan Harbage Page vuole far parlare attraverso la catalogazione di oggetti e
la loro poetica solitudine il passaggio di vite umane da uno stato all’altro (e
da uno Stato all’altro), Sasha Huber provoca la Storia per mettere in
discussione ciò che essa ci ha tramandato, ciò che crediamo di sapere,
evidenziando forme attuali di neocolonialismo. Due artiste diverse nella resa
artistica ma accomunate dalla sensibilità per una crescente moltitudine di
senza nome che pagano il prezzo degli equilibri politici ed economici
contemporanei.
Oggi Sasha Huber è una delle più
interessanti artiste internazionali. Presente in Finlandia come in Brasile, a
Haiti come in Francia, in Australia come a Londra, mancava alla sua espografia proprio
l’Italia, a cui è legata per aver completato qui parte della sua formazione
artistica con una residenza a Fabrica di Benetton. Con i galleristi Antonio
Martini e Rossella Alessandrucci de LaStellina ArteContemporanea siamo lieti di
averla portata per primi nel nostro Paese, certi che sarà solo l’inizio di una
lunga serie di incontri per conoscere meglio il suo lavoro.
Stella Bottai
English Version
An amazon in
the gallery
di
Stella Bottai
Stella Bottai
Sasha Huber
is an amazon in the contemporary art scene. Such was the impression I got the
first time I met her in Helsinki, some years ago, introduced to her by another
great Finnish artist, Marita Liulia. How
could you call otherwise than 'amazon' the woman who boards a helicopter to
plant on a mountain top the portrait of the slave Renty, to remember the racist
attitudes of the Swiss scientist Louis Agassiz (1807-1873) to whom the peak was
dedicated (Rentyhorn, 2008)? Two years after, Sasha Huber went on a
horseback to Praça Agassiz, in the suburbs of Rio, telling with a megaphone to
the local people the story of the man to whom the square was dedicated : eminent
scholar, yes, but also one of the first theorists of apartheid (Louis who?
2010). Only two examples of the many performances that the artist makes to
re-frame in History the figure of several personalities whose work eventually
resulted in discriminatory attitudes, sometimes ended in tragedy. Last but not
least, Huber embraces from 2004 a staple-gun like a rifle, outlining with the
staples the profiles of prominent historical figures. Shot after shot she
equalizes the score with the executioners of the victims of abuse, racism,
dictatorships, genocides, remembering
Niki de Saint-Phalle shooting the color on the canvas (Shooting back,
2004 -).
I love
Jany is a project
of 2010, dealing in a more private and intimate way with the artist's themes :
the cultural roots and the uprooting. The photos and the video reconstruct the
portrait of Jany Tomba, aunt of the
artist, who fled in the Sixties the Haitian dictatorship to settle in New York.
Thanks to her radiant beauty the doors of fashion opened to Jany. Her exotic
features, skin color, curly hair made her an icon of style, not only in the
fashion world. Refusing to smooth her kinky hair - as was in use at the time –
was for example a significant choice, not only for black women. A story with a
happy ending, told with lightness, but where emerges Sasha's desire to
reconnect with its Haitian ancestors and tell the sufferances of this island:
poverty, dictatorship, the recent earthquake (Haïti Chérie, 2010 -11). I love
JaNY project tends
ideally a hand to the previous project proposed at LaStellina
ArteContemporanea in October 2014, Objects
from the Borderlands: Anti-Archive from the US Mexico Border Project by Susan Harbage Page, curated by
Manuela De Leonardis. The artist showed
pictures of objects that she found along the border between the United States
and Mexico, belonging to migrants who attempted to cross the border and whose
we do not know the identity. If Susan Harbage Page talks through the cataloging
of objects and their poetic solitude about the shift of life from one state to
another (and from one State to another), Sasha Huber challenges History to
question what it has handed down to us, what we think we know, highlighting
contemporary forms of neo-colonialism. Two artists with a different artistic
language, but tied by the same sensitivity towards a growing multitude of
nameless who pay the price of contemporary political and economic balances.
Today Sasha
Huber is one of the most interesting international artists. Present in Finland
as in Brazil, at Haiti as in France, in Australia as in London, her CV just
lacked an Italian exhibition, the country where Sasha has completed part of his
artistic training. With Antonio Martini and Rossella Alessandrucci, the owners
of LaStellina ArteContemporanea, we are pleased to have brought her for the
first time in our country, certain that it will be just the beginning of a long
series of events devoted to her work.
Stella Bottai